mercoledì 23 febbraio 2011

Quesito esistenziale.. bhè forse no.. forse è troppo.. ma già che ci siamo.. diciamo quesito e basta…

Stamattina una paziente mi faceva riflettere. Si parlava di come sta vivendo un momento tutto sommato positivo, di come la relazione sentimentale attuale sia discretamente soddisfacente e anche il lavoro. A 27 anni, per il 2011 non è poco.
E però non basta.
Non basta nella misura in cui non è stata mai bocciata, ha fatto l’università in tempi ragionevolmente celeri, ha trovato lavoro presto dopo un utile corso di formazione, ma non  basta ad avere quel piccolo o grande “brava” dalla madre che sente necessario. Quel piccolo o grande “sono fiera di te”, che non dovrebbe essere un timbro alla nostra autostima di esseri umani, però vuoi o no vuoi spesso capita che sia così. Se non è la madre è il padre, se non è il padre è il partner.. diciamo persone che sono significative per noi. Mettiamola così, che può apparire più ostico, ma in verità è più semplice e generico. Il fatto che persone importanti per noi ci dicano “sono fiera/o di te”. Ma quanto è tremendamente importante? Quanto lo è, anche se spesso costruiamo la nostra vita anarchica o perfezionista nello sforzo di dimostrare che così non è?
Che poi, una volta la madre della tale signorina ebbe pure modo di dirglielo, ma l’effetto non fu molto consolatorio, semmai vissuto come ulteriore sfida a fare di più.
“eppure.. sa dottore.. se un domani avessi una figlia come me.. non sarebbe poi male come figlia..” .
Che se può sembrare una frase capitale, messa così, lo è ancora di più se si pensa che fino a qualche mese fa riteneva assolutamente improbabile avere figli, visto che si riteneva una matta da catena di forza. Di fronte ad una frase così importante non è semplice capire cosa dire. La scelta che ho compiuto io è stata quella di rafforzare non tanto il contenuto della frase, quanto il fatto che da lei partisse una considerazione su se stessa non dovuta al giudizio che ritiene gli altri abbiano di lei. Ed una tale considerazione, scevra dall’altrui giudizio (che per lei è spesso fondamentale), aveva anche una forte componente emotiva e per questo era più delicata ma anche enormemente più preziosa e potente.
E poi come al solito ho giocato con lei ha poker. Cioè, le ho detto “la domanda che NON le faccio, ma su cui la invito a riflettere.. e che è l’altro lato della medaglia rispetto a questa sua importante affermazione è.. lei avrebbe piacere ad avere una figlia che le somiglia.. ma lei come madre ritiene che sarebbe quanto simile o diversa rispetto a come è stata sua madre?”.
Che può sembrare una cosa molto spigolosa da dire. Probabilmente lo è. Ma il fatto che io questa domanda la proponga, ma senza obbligare alla risposta, è un modo per fare riflettere su una cosa intensa dando anche la possibilità di proteggersi.
Lo so, è una cosa complicata, ma sono abituato a lavorare così. Dialogo come delle non domande. Le persone che vedo sono libere di non rispondere, ma sanno che la risposta non devono darla a me ma a loro stessi e se ci riescono è nel loro interesse.
La risposta che mi ha dato è stata interessante.
Nel senso che lei vorrebbe essere in futuro una persona autonoma, ma ritiene anche di avere assunto dei modi di essere di sua madre, dei modelli, degli schemi spesso del tutto automatici e spesso li mette in atto.
Questo la stava portando a vedersi male. E mi ha chiesto “ma io come faccio.. come faccio a capire se qualche volta sono io che faccio le cose, oppure mi sto comportando come farebbe mia madre? Per fare un esempio.. io sono disordinata.. ma l’altro giorno mi stavo arrabbiando con il mio fidanzato perché non aveva apparecchiato bene.. e nel farlo mi sono sentita come mia madre.. allora sono come lei ?”.
Bella domanda.
Quanto siamo noi e quanto siamo i nostri genitori? Quanto siamo noi e quanto siamo ciò che ci è stato tramandato, insegnato, obbligato e quanto altro? Non è facile. Non è facile soprattutto perché noi non siamo il territorio del Risiko, la mappa con i confini ben precisi. Non è mica che noi possiamo dire questo è un modo di essere mio.. poi da lì in poi c’è il padre che ho dentro.. poi là inizia la mamma.. e così via. Non è mica così la nostra bella testolina eheheheh.. eh no..
Ad una domanda così non puoi rispondere. O sennò puoi rispondere in modo molto semplice, dicendo che il problema non esiste, perché se le idee dei nostri genitori sono dentro di noi, allora sono comunque parte di noi. Quindi dentro di noi c’è solo un noi e basta. Con tutto quello che ci sta dentro.
Ma per quanto ciò possa essere una risposta ad un quesito ostico, solo questo non si può accettare. Io non lo accetterei. Perché pur essendo una risposta, non dà comunque una prospettiva.
Ed avere una prospettiva è fondamentale.
Un dubbio come quello si può sciogliere, secondo me, solo attraverso il porsi un’altra questione, che tutto sommato è quella che stava nel fondo e non veniva detta. Che è questa . Crescendo, avventurandoci in questo percorso frastagliato un po’ amaro e un po’ dolce che è la vita, è naturale che ci confrontiamo con altre persone, con loro e di loro facciamo esperienza e tutto questo ci entra dentro nel bene e nel male. Cose dei nostri genitori sono dentro di noi. Non lo si può evitare. Non credo neanche che sia da evitare in verità. E perché?, sono comunque insegnamenti. Il problema non è quanto degli altri ci sia in noi. Il quesito è : quanto io sono convinto che “un modo di essere di mio padre o mia madre che è in me” è immodificabile ? Quanto determinati modi fare appresi, quanto determinate emozioni automatiche, sono immutabili ?
Perché il problema sta là.
Non è quanto di mio padre/madre c’è in me. Ma quanto tutto ciò lo possiamo elaborare. Quanto tutto ciò lo possiamo usare in modo nuovo oppure possiamo metterlo da parte.
La vita ci può insegnare tante cose. Non è detto ci piacciano tutte. Le persone che incontriamo possono darci delle cose che nel bene e nel male facciamo nostre. Non sempre sono cose positive. Ma queste cose possono essere pietre e possono essere creta. Se sono pietre sono schemi fissi che non possiamo cambiare. Se sono creta, sono qualcosa di malleabile, che possiamo mutare di forma, adattandolo al modo in cui noi vogliamo per noi stessi la nostra vita. Che è l’unica che abbiamo.
Ma se certe cose, certi insegnamenti e modi di essere (con noi stessi, col mondo), sono pietre o creta, lo decidiamo noi, in buona parte. Lo determina la nostra volontà di dichiarare a noi stessi che siamo troppo curiosi per fermarci adesso.
Siamo troppo curiosi per fermarci ora. Abbiamo troppo voglia di scoprire chi saremo domani, chi possiamo essere domani. Perché possiamo essere, per davvero, un sacco di cose.
Musica !

lunedì 21 febbraio 2011

PsicoRecensione di "Il cigno nero"

Finalmente qualcosa di cui parlare, che non abbia a che fare con alcuno che si chiami Sivio, o Niki, o Ruby, o Sergio, o altro così.
Parliamo di cinema, che è meglio, che fa sempre bene! Glisso sul fenomeno Zalone, così come su “La Qualunque” che in modo più o meno naif trattano di questa ormai vituperanda società e mi fiondo sul film che ho visto ieri sera e mi è abbondantemente piaciuto. Diciamo che per un paio d’ore mi sono dimenticato dell’esistenza di Gheddafi, del Bunga bunga, della (non)ripresa economica e già questo fa tanto, già questo è un buon motivo per tirare fuori 7 euro e 50 di lacrime e sangue. E da luglio saranno 8,50, a quanto pare. (assurdo.. basta che per un paio di mesi la gente vada al cinema un po’ di più e subito alzano il prezzo.. sciacalli..) .
Ho visto “Il cigno nero”, di un regista sempre più bravo, benché dal nome quasi impronunciabile, Darren Aronofsky , con una Natalie Portman che verosimilmente svolazza senza ostacoli verso il primo premio Oscar della sua carriera. Carriera iniziata nel ’94, ancora ragazzinetta, al fianco di Jean Reno nel meraviglioso “Leon”, di Bessòn . Quanto era meravigliosa in quel film. Ma anche in questo non scherza mica. I suoi occhi, la sua mimica, i suoi piedi e le sue mani tengono lo spettatore inchiodato per 2 ore senza che lui si accorga del tempo che passa. Tra le sue dita e i suoi occhi scorrono tutte le emozioni possibili, dalla malinconia, alla gioia, alla sensualità, alla paura, alla rabbia, al dolore, all’orgasmo, allo stato di trance da droghe, alla follia. Tutto.
In sintesi, ma proprio in sintesi, la storia di una ballerina di un corpo di danza di New York, che diventa prima ballerina del gruppo e viene incaricata di interpretare la protagonista del “Lago dei cigni”, in una nuova versione, in cui dovrà non solo interpretare la limpida perfezione del cigno bianco, ma anche la sensuale malvagità del cigno nero.
Il tema del doppio, quindi.
Non è certo la prima volta che un tema del genere viene trattato. Il tappeto su cui tutto ciò si dipana è la solita competizione tra danzatrici alla ricerca della perfezione assoluta, naturalmente magre e perennemente a dieta, così come naturalmente figlie di genitori che in loro sperano per cambiare la loro esistenza, dimenticando i loro singoli fallimenti. Ballerine che chiaramente sono in perenne competizione tra loro, senza esclusione di colpi.
Già visto.
E più che si avvicina al trionfo personale, più che la protagonista perde la brocca. Per dirla facile. Non è nemmeno strano che ciò accada se si contempla il fatto che la madre è l’apoteosi del genitore intrusivo e soffocante, il coreografo con la scusa di fare emergere in lei la passionalità utile al personaggio ci prova in tutti i modi possibili e la ballerina rivale si diletta in saffiche effusioni con contorno di pasticche d’acido. Nel ruolo del coreografo, Vincent Cassell, nel ruolo della sua vita, cioè il gran bastardo. Una vita che fa sta parte. Per me basta il suo personaggio in “L’Odio”. Bastava quello. Mila Kounis nel ruolo della rivale. Winona Ryder in una particina da ballerina messa da parte e abbandonata da tutti, quando il suo tempo è ormai finito e sia il coreografo, sia la società, vogliono carne fresca. Tremendamente vicino alla vita di questa attrice. Peccato, era brava, a me è sempre piaciuta.
E anche qui siamo più o meno dalle parti del già veduto.

E allora perché vedere cose in qualche modo già viste?
Si potrebbe dire che cose già viste ma girate bene hanno un loro valore, ma sarebbe ingiusto. Il film non è soltanto ben girato, è meravigliosamente girato. Con dolcezza e crudeltà. Con una mano una carezza di poesia e lirismo, con un’altra una serie di pugnalate, di tagli, di ferite. Il corpo della protagonista ne è il simbolo: tenue, leggero, flessibile, ma anche piagato oggetto della sua stessa ferocia, delle mutilazioni che si (in)consapevolmente (?) si auto infligge. Se si guarda alla carriera di Aronofsky è facile fare 2+2 e dire che è appassionato delle potenzialità del corpo umano. Questo lo avvicina a Cronenberg, che però preferiva usare un registro più visionario per rappresentare il mondo interno ed esterno dei suoi personaggi, mentre Aronofsky da questo punto di vista è un deciso naturalista. Uno spietato naturalista. Prendi un personaggio, ponilo davanti ad un obiettivo che vorrà raggiungere costi quel che costi. Di mezzo ci sta il limitare tra perfezione e perfezionismo e la scelta individuale di pagare il prezzo più alto possibile pur di giungere alla perfezione, non comprendendo che si è dentro un vortice di perfezionismo autodistruttivo. Il perfezionismo può essere oltremodo distruttivo e il corpo è il primo a farne le spese. Dopo il Mickey Rourke di “The Wrestler”, la danzatrice Portman ne è il proseguire logico. Del resto, per molti anche il wrestling è una danza, o quantomeno una barocca, talvolta struggente, finzione. Un lago dei cigni muscolare.
Passione come pathos, come vero patire, che qui diventa follia.
Altro motivo per vedere questo film. Non svelo nulla se dico che la protagonista percorre una strada che la porta alla distruzione, innanzitutto psicologica. E il modo in cui tutto ciò viene descritto è molto interessante. Anche intrigante. Per chi vuole descrivere il disagio mentale grave, a livello psichiatrico, le scelte sono sempre due. Descrivere oggettivamente un personaggio che appare sempre più folle, incomprensibile, strampalato, e però in qualche modo per noi anche implicitamente rassicurante, proprio perché incomprensibile. Oppure, seconda scelta, tentare di riprendere lo sguardo soggettivo del protagonista su se stesso e sul mondo, tra delirio e realtà. E’ più complicato, più complesso, estremamente più rischioso, nella misura in cui lo spettatore può giungere a dei momenti in cui per davvero non si capisce più nulla. Ne “Il cigno nero”, succede almeno in un paio di occasioni. Le scene scorrono, la trama finisce e uno poi si chiede “ma quella cosa l’ha fatta per davvero oppure era un’allucinazione” ? Se oltre a tutto ciò si avverte anche un senso di disagio, di vago disturbo, se in qualche modo ci si percepisce perturbati, allora il film ha raggiunto lo scopo che voleva, cioè creare non solo confusione, ma anche disagio, lasciando lo spettatore nello stato di intima incertezza che aveva vissuto il protagonista della pellicola.
E così accade in questo film. La distruzione psicotica della protagonista viene vissuta dallo spettatore, che alla fine non si sente solo confuso, ma anche e soprattutto perturbato.
E questo mi fa un attimo riflettere. Allo spettatore di oggi non piace essere perturbato. Bhè forse non è piaciuto mai, in verità, però prima tutto ciò era vinto dalla curiosità. Ora no, si va al cinema per ridere, per sorridere, per riflettere, per piangere, per terrorizzarsi magari, per disgustarsi anche (vedi gli horror macelleria). Ma l’ipotesi di restare disorientati, intimamente sorpresi da una sensazione di disagio, ecco quello non lo si vuole proprio accettare. In molti si tappano gli occhi quando la protagonista, in modo allucinatorio (ma rappresentato con immagini assolutamente realistiche) si strappa pezzi di pelle. Vabbè ci può stare. Probabilmente se le tagliassero la testa la gente direbbe “bleah” ma non si coprirebbe gli occhi. Vedere dei piedi tumefatti dallo sforzo o la pelle strappata dalle dita fa più effetto. Ma c’è di più. In due occasioni la protagonista prova a masturbarsi per cercare di superare la sua ossessività e tornare a sentire in sé la passione, la vitalità, che le servirebbero per comprendere come fare al meglio il maligno cigno nero. E’ un modo di entrare in contatto con la propria corporeità, che ha insieme del dolce, del perverso, del doloroso. Di certo non sono scene goliardiche, né tantomeno gioconde. Bhè in entrambe le occasioni ho sentito la gente chiacchierare e ridacchiare. Non era mica Ben Stiller che si fa una pippa in “Tutti pazzi per Mary”, non c’era mica cameron Diaz che si metteva il famoso (non)gel per capelli. A modo loro erano anzi due sequenze disturbanti. Ma la gente non ha piacere ad essere disturbata; non ha nemmeno la curiosità di essere disturbata. E quindi si reagisce a tutto ciò ridacchiando. Si ridacchia perché sembra che rispetto alla masturbazione si può solo ridacchiare. O forse, che è peggio, perché dinnanzi a qualcosa che ci potrebbe disturbare è meglio se ridacchiamo e facciamo finta di niente.
“Il cigno nero” perturba senza schifare, disturba senza creare ribrezzo. E’ un thriller, per necessità di cose, ma non è un horror. Quantomeno non è l’Enigmista 10.
Il poster americano credo sia molto meglio di quello italiano. Rende molto meglio il discorso di fondo, in modo appunto molto più ambiguo e disturbante. La purezza del pallore del cigno bianco e gli occhi del cigno nero. Molto meglio del tipico viso in frantumi del poster italiano.  

Non a caso, un altro gran disturbatore, Jim Carrey, non si è fatto pregare e ha subito fatto una parodia del film, al Saturday Night Live, la si trova su youtube. Ma Carrey è un grande, sa bene quel che fa.
Poi si può dire che vuole parlare di tante cose, con tanti registri, inserendo tutti i possibili sintomi presenti in una manuale diagnostico di psichiatria. Su questo magari esagera. Però il percorso psichico che lega il comandamento della madre, alla disistima della figlia, al suo perfezionismo, al modo in cui agisce con e sul suo corpo e la rottura psicotica finale, è descritto benissimo e lucidamente. Il filo è descritto benissimo e rappresenta ottimamente una cosa che talvolta sfugge a molti psichiatri e psicologi: una struttura mentale ossessiva, per quanto deleteria sia, può anche essere una corazza protettiva che, se crolla, lascia il posto alla psicosi più infame. E prima di destrutturare l’ossessività di una paziente dovremmo stare ben attenti a capire cosa ci sta sotto e rinforzare ciò che togliamo con elementi positivi. Il fatto che visioni allucinatorie e reali diventino sul finire quasi del tutto indistinguibili, può anche essere eccessivo, ma è ciò che succede quando si disgrega un’unità psichica, quindi ci sta. Aronofsky lo fa dignitosamente, senza mai eccedere in effetti speciali. L’unica concessione effettosa che si fa è quando la ballerina danza la parte del cigno nero, con le piume del cigno che escono dalla pelle mentre danza, ed è poesia pura. Per il resto il regista ha uno sguardo da puro umile osservatore. Da naturalista. E infatti si parla di cigni. Bianchi e neri.
Dentro un corpo solo.